Titoli di credito – assegni di traenza – contestuale apertura libretto di risparmio –
illegittimo incasso con firma apocrifa – concorso di colpa

Nota alla sentenza del Tribunale Roma, Sez. XVII, Sent., 04/11/2021, n. 17121 – A cura dell’Avv. Valerio Di Giorgio

Con la sentenza in esame si riporta all’attenzione del lettore la doglianza con cui il legale rappresentante di una Compagnia di Assicurazioni conveniva in giudizio Poste Italiane Spa (odierna convenuta) chiedendo, come precisato nella prima memoria ex art. 183 , VI comma, c.p.c., previa ogni più opportuna declaratoria in ordine alla responsabilità della convenuta, di condannarla al pagamento, in favore di essa attrice della somma complessiva di Euro 8.738,42, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dal dovuto al saldo.
Oggetto del procedimento è la negoziazione di numero tre assegni di traenza non trasferibili:
Dalla documentazione allegata è emerso che:
-rispettivamente in data 22.6.2006, 17.1.2006 e 24.11.2005 detti assegni erano negoziati all’Ufficio Postale; in particolare, i soggetti che negoziavano detti assegni aprivano, in pari data, un libretto di risparmio postale e, successivamente negoziavano gli assegni in questione.
-i soggetti erano identificati mediante documento di identità e codice fiscale e, come emerge dalla documentazione relativa alla pratica di apertura dei libretti di risparmio, detti soggetti fornivano la medesima identità dei beneficiari dei titoli di credito con dati anagrafici -luogo, data di nascita e strada di residenza- diversi da quelli dell’effettivo destinatario dell’assegno (come risultanti dai dati riportati nelle denunce rispettivamente presentate);
-nel frattempo gli effettivi destinatari degli assegni in questione, presentavano denuncia rappresentando l’avvenuto incasso di detto assegno con firma apocrifa.
Nel merito, va premesso che nel caso di specie, il dedotto inadempimento imputato alla Posta non concerne la fattispecie relativa al mancato rispetto dell’obbligo di pagamento dei titoli di credito, muniti della clausola di non trasferibilità, al beneficiario indicato, essendo oggetto nel caso di specie, la diversa ipotesi di pagamento di assegno apparentemente pagato al legittimo beneficiario, cioè a colui che era espressamente indicato quale unico beneficiario del titolo.
Nel caso in esame, i titoli di credito in oggetto sono assegni tratti per conto terzi la cui peculiarità è che non contiene la sottoscrizione del soggetto emittente, ma è sottoscritto direttamente dal beneficiario con girata in favore di se stesso; detti titoli, per come visto, sono stati pagati agli apparenti beneficiari degli assegni, a seguito della probabile contraffazione dei documenti identificativi.
In casi simili, si ritiene (come nell’analogo caso di firma apocrifa dell’assegno -cfr. Cass. Sez. III, sent. n. 20292/2011) che la società negoziatrice dell’assegno possa essere ritenuta responsabile non a fronte della mera fraudolenta sostituzione di un soggetto al reale destinatario e beneficiario del titolo di credito, ma solo nei casi in cui una tale sostituzione sia rilevabile in base alla diligenza media dell’operatore nell’effettuazione della negoziazione in questione.
Va evidenziata anche la recente giurisprudenza della Suprema Corte (Sez. Un., sent. n. 12477/2018) che ritiene, comunque, che “Ai sensi dell’art. 43 , comma 2, del R.D. n. 1736 del 1933 (c.d. legge assegni), la banca negoziatrice chiamata a rispondere del danno derivato – per errore nell’identificazione del legittimo portatore del titolo – dal pagamento dell’assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola non trasferibilità a persona diversa dall’effettivo beneficiario, è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’art. 1176 , comma 2, c.c.”.
Ciò premesso, si ritiene, nel caso di specie, sussistere una condotta negligente della società convenuta la quale, tramite un semplice e rapido controllo dell’esattezza dei codici fiscali, in via telematica, poteva verificare la validità di detti codici (l’invalidità di detti codici fiscali è documentata dalla parte attrice in sede di memoria istruttoria).
Tale condotta doveva ritenersi esigibile nel caso in esame, in base alla media diligenza che deve essere propria dei professionisti addetti alla negoziazione di titoli, considerato che per il tipo di titolo in questione non era possibile un confronto con uno “specimen” di firma e considerata la circostanza che i soggetti, non conosciuti quali abituali cliente della società convenuta, avevano acceso solo in pari data alla negoziazione dell’assegno un libretto di risparmio, fatto che avrebbe dovuto sollecitare maggiore cautela e attenzione nel controllo circa l’identificazione dei soggetti -i quali, inoltre, non risiedevano nel luogo ove erano rispettivamente incassati gli assegni, previa apertura del libretto di risparmio-.
In ordine al danno, poi, questo consegue all’incasso dei titoli di credito da parte dei soggetti diversi dai reali destinatari dei titoli medesimi, con conseguente perdita ingiustificata di quella somma da parte del soggetto emittente gli assegni, il quale ne aveva costituito la provvista; nel caso di specie è stato comunque documentato, per i primi due assegni, il nuovo pagamento effettuato dalla parte attrice, nei confronti dei reali beneficiari, degli assegni in questione.
In relazione alla contestazione del concorso di colpa, ex art.1227 c.c., avanzata dalla parte convenuta, in relazione alla condotta della parte attrice che si era avvalsa, in accordo con gli istituti di credito trattari, per la trasmissione dei titoli di credito in argomento, della posta ordinaria, va evidenziata la recente pronuncia delle Sezioni Unite (sent. n.9769/2020) sul punto.
In detta pronuncia era, innanzitutto, ribadita la natura contrattuale della responsabilità dell’istituto che negozia l’assegno trattandosi di “un’ipotesi di responsabilità contrattuale c.d. da contatto sociale”, fondata sull’obbligo professionale di protezione” nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, ed era evidenziato che, al fine di sottrarsi alla responsabilità, l’istituto che negozia l’assegno è tenuto a provare di aver assolto alla propria obbligazione con la diligenza dovuta, che è quella nascente, ai sensi dell’art. 1176 , secondo comma, cod. civ., dalla sua qualità di operatore professionale, tenuto a rispondere anche in ipotesi di colpa lieve.
Era evidenziato che lo scopo della clausola di intrasferibilità consisteva non solo nell’assicurare all’effettivo prenditore il conseguimento della prestazione dovuta, ma anche e soprattutto nell’impedire la circolazione del titolo.
Riguardo al nesso causale, richiamati gli articolo 40 e 41 cod. pen. ed i principi della “condicio sine qua non” e della “causalità adeguata” sottolineava come “il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 40 cod. pen., in virtù del quale deve riconoscersi a ciascuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell’art. 41 cod. pen., in base al quale l’evento dannoso può essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta soltanto se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto”
Rilevava che l’interruzione del nesso causale poteva essere anche l’effetto del comportamento dello stesso danneggiato e che detta condotta -anteriore, coeva o successiva alla commissione del fatto illecito- poteva essere tale da interrompere il nesso causale dell’evento dannoso con le condotte precedentemente poste in essere ovvero essere idonea solo a concorrere alla produzione del danno, applicandosi, in quest’ultimo caso, “l’art. 1227 , primo comma, cod. civ., il quale afferma il principio secondo cui il danno che taluno arreca a sé medesimo non può essere posto a carico dell’autore della causa concorrente.
Evidenziava, quindi, la Suprema Corte che “in caso di sottrazione di un assegno non trasferibile non consegnato direttamente al prenditore, le modalità prescelte per la trasmissione del titolo possano spiegare un’efficienza causale ai fini della riscossione del relativo importo da parte di un soggetto non legittimato” in quanto ai fini della negoziazione dell’assegno oltre ad essere necessaria una compiuta identificazione del prenditore dell’assegno e indispensabile anche la materiale disponibilità del titolo da porre all’incasso; sottolineava, invero, che “il possesso del documento rappresenta infatti una condizione essenziale per l’esercizio del diritto in esso incorporato, allo stesso modo della qualità di prenditore di colui che presenta il titolo all’incasso”.
Riteneva, quindi, la Cassazione che qualora “la sottrazione sia stata cagionata o comunque agevolata dall’adozione di modalità di trasmissione inidonee a garantire, per quanto possibile, che l’assegno pervenga al destinatario, non può dubitarsi che la scelta delle predette modalità costituisca, al pari dell’errore nell’identificazione del presentatore, un antecedente necessario dell’evento dannoso, che rispetto ad esso non si presenta come una conseguenza affatto inverosimile o imprevedibile.
Proseguiva rilevando:
che “il rischio che l’assegno possa cadere in mani diverse da quelle del destinatario, e sia presentato all’incasso da un soggetto diverso dallo effettivo prenditore non può ritenersi “scongiurato né dalla clausola d’intrasferibilità, la cui funzione precipua non consiste, come si è detto, nell’evitare il predetto evento, ma nell’impedire la circolazione del titolo, né dall’imposizione a carico della banca dell’obbligo di procedere all’identificazione del presentatore, dal momento che il puntuale adempimento di tale obbligo è reso sempre più difficoltoso dallo sviluppo di perfezionate tecniche di contraffazione dei documenti”;
che “in tale contesto, la scelta di avvalersi della posta ordinaria per la trasmissione dell’assegno al beneficiario, pur in presenza di altre forme di spedizione (posta raccomandata o assicurata) o di strumenti di pagamento ben più moderni e sicuri (quali il bonifico bancario o il pagamento elettronico), si traduce nella consapevole assunzione di un rischio da parte del mittente, che non può non costituire oggetto di valutazione ai fini dell’individuazione della causa dell’evento dannoso: quest’ultima, infatti, non è identificabile esclusivamente con il segmento terminale del processo che ha condotto al verificarsi dell’evento, ma dev’essere individuata tenendo conto dell’intera sequenza dei fatti che lo hanno determinato, escludendo ovviamente quelli che non hanno spiegato alcuna incidenza su di esso, per essere stati superati da altri fatti successivi di per sé soli sufficienti a cagionarlo;
che il riconoscimento del concorso di colpa del danneggiato può ritenersi integrato non solo quando vi sia una condotta tenuta in violazione di precise norme giuridiche, ma anche quando quella condotta comporta “l’esposizione volontaria o comunque consapevole ad un rischio che, secondo regole di prudenza comportamentale avvertite come vincolanti dalla comunità, si ponga al di sopra della soglia della normalità, dal momento che in tal caso il comportamento tenuto dal danneggiato si inserisce nel processo eziologico che conduce all’evento dannoso, divenendo un segmento della catena causale”:
Sulla base di dette argomentazioni, la Cassazione, dopo aver premesso che non sussistono norme giuridiche che escludano l’utilizzo dell’assegno per effettuare pagamenti a distanza e ritenuta l’impossibilità di attribuire efficacia giuridicamente vincolante alle norme che disciplinano il servizio postale, partendo dall’esame delle modalità di prestazione del servizio postale, evidenziava le particolari cautele apprestate dalla normativa per la spedizione, la trasmissione e la consegna della posta raccomandata ed assicurata, rispetto alle corrispondenti modalità previste per la posta ordinaria.
Conseguentemente, riteneva che l’assunzione del rischio di sottrazione del titolo di credito a seguito del mancato utilizzo di forme di corrispondenza più sicure era condotta idonea anche ad accrescere la probabilità di pagamenti a soggetti non legittimati, comportando un aggravamento della posizione della banca trattaria o negoziatrice e la violazione del dovere di agire in modo da preservare gl’interessi di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, ove ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico, “in ossequio al principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost., che a livello di legislazione ordinaria trova espressione proprio nella regola di cui all’art. 1227 cod. civ., operante sia in materia extracontrattuale, in virtù nell’espresso richiamo di tale disposizione da parte dell’art. 2056 cod. civ., sia in materia contrattuale, come riflesso dell’obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede, previsto dall’art. 1175 cod. civ. in riferimento sia alla formazione che all’interpretazione e all’esecuzione del contratto”.
Pertanto, la Corte, in base alle suddette condivisibili considerazioni indicava il seguente principio:
“La spedizione per posta ordinaria di un assegno, ancorché munito di clausola d’intrasferibilità, costituisce, in caso di sottrazione del titolo e riscossione da parte di un soggetto non legittimato, condotta idonea a giustificare l’affermazione del concorso di colpa del mittente, comportando, in relazione alle modalità di trasmissione e consegna previste dalla disciplina del servizio postale, l’esposizione volontaria del mittente ad un rischio superiore a quello consentito dal rispetto delle regole di comune prudenza e del dovere di agire per preservare gl’interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda, e configurandosi dunque come un antecedente necessario dell’evento dannoso, concorrente con il comportamento colposo eventualmente tenuto dalla banca nell’identificazione del presentatore”.
Pertanto, il Tribunale ritenuta, per quanto già detto, la sussistenza di un comportamento colposo della parte convenuta nell’identificazione del presentatore dell’assegno in questione, ritiene anche sussistere, ex art.1227 c.c., una condotta negligente della società attrice nel non aver adottato o fatto adottare, per l’invio dell’assegno, uno strumento più sicuro di quello della posta ordinaria, ponendo in essere un concorrente comportamento colposo, anch’esso antecedente necessario dell’effetto dannoso contestato.
Ritenuto, quindi, che le condotte negligenti poste in essere dalle parti siano antecedenti necessari dell’evento lesivo, si ritiene prevalente la responsabilità delle P.I., in considerazione della maggiore gravità della condotta negligente tenuto dall’ufficio postale rispetto alle verifiche da effettuare in relazione ad una situazione “anomala”, quale l’incasso di un assegno di traenza contestualmente all’apertura di un libretto postale da parte di soggetto non avente, fino a quel momento, depositi o conti presso P., rispetto alla condotta tenuta dalla parte attrice, che rappresenta solo il soggetto che ha partecipato con la modalità di innesto della catena causale – consistito nella superficialità di aver effettuato la spedizione degli assegni tramite l’utilizzo dei normali servizi postali privi di tracciabilità e insidiati da più elevato pericolo di sottrazione, pur potendo con un minimo sforzo rendere più sicura la trasmissione e consegna del plico.
Conseguentemente, si ritiene imputabile il concorso di colpa della parte attrice nella misura di un terzo.
Pertanto, la società convenuta è stata condannata, a titolo di risarcimento del danno, al pagamento, in favore della parte attrice, dei due terzi dell’importo complessivo degli assegni in oggetto, oltre la rivalutazione annuale secondo gli indici I.S.T.A.T., trattandosi di debito di valore, dalla data di negoziazione degli assegni (data dell’evento lesivo) al saldo, nonché gli interessi, nella misura del tasso legale, sulla somma annualmente rivalutata dalla domanda al saldo.

ILLEGITTIMO INCASSO ASSEGNO BANCARIO – MANCATA VERIFICA IDENTITA’ DEL BENEFICIARIO – CULPA IN VIGILANDO 

Giurisprudenza in materia di firma apocrifa per l’incasso di assegni bancari

Cass. civ., Sez. VI 01/02/2022, Sent. n. 3078 –

a cura dell’Avv. Valerio di Giorgio

Con un recente sentenza la Corte di Cassazione affronta la responsabilità dell’istituto di credito per la mancata verifica dell’identità del beneficiario dell’assegno bancario, ipotesi che vede coinvolta la grafologia poiché, nella maggior parte dei casi, trattasi di assegni portati all’incasso mediante l’apposizione di firma apocrifa

Ripercorrendo la vicenda giudiziaria, nel caso esaminato dalla Suprema Corte, la Milano Assicurazioni s.p.a. convenne innanzi al Tribunale di Venezia la Poste Italiane s.p.a., chiedendone la condanna al pagamento della somma di Euro 4800,00 a titolo risarcitorio, allegando che un assegno di traenza, emesso a nome di una persona fisica, era stato portato all’incasso presso uno sportello di Poste Italiane da soggetto diverso da quello indicato nel titolo di pagamento, e che l’effettivo beneficiario aveva sporto denuncia per il mancato ricevimento del titolo (tanto che l’attrice aveva effettuato a favore di quest’ultimo un nuovo pagamento). Pertanto, l’attrice, dolendosi della mancata diligenza delle Poste nell’accertamento dell’identità del soggetto il quale aveva presentato l’assegno all’incasso, chiedeva il risarcimento del danno.
La convenuta eccepiva l’infondatezza della domanda.
Il Tribunale rigettò la domanda; avverso tale pronuncia la Milano Assicurazioni s.p.a. propose appello che, con sentenza del 2.9.19, la Corte territoriale ha respinto, osservando che: non era stata dimostrata la responsabilità della convenuta poichè, a fronte della coincidenza del nominativo del beneficiario dell’assegno con quello del soggetto che ne aveva chiesto l’accredito sul libretto postale di risparmio, non era esigibile alcun altro accertamento da parte di Poste Italiane s.p.a., considerato che lo stesso titolo non presentava alterazioni che ne ponessero in dubbio l’autenticità.
Unipol Sai s.p.a.- quale incorporante la Milano Assicurazioni s.p.a.- ricorre in cassazione con unico motivo. Resiste con controricorso Poste Italiane s.p.a..
L’unico motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 43 L. assegni, art. 1176 c.c., comma 2, e art. 1218 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, per aver la Corte d’appello escluso la responsabilità contrattuale della convenuta, la quale non aveva fornito la prova liberatoria dell’illegittimo incasso dell’assegno, considerando altresì che il titolo non era stato contraffatto, ma trafugato e girato con firma apocrifa, essendo falsificato anche il documento di riconoscimento del soggetto che aveva presentato il titolo all’incasso, la cui autenticità non era stata verificata da Poste Italiane s.p.a.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile.
Le questioni affrontate nel presente giudizio riguardano un assegno di traenza per indennizzo assicurativo emesso su disposizione della società assicurativa (Milano Assicurazioni) dalla banca trattaria (Banca SAI) ed inviato da questa al beneficiario a mezzo posta ordinaria. L’assegno veniva pagato dalla negoziatrice Poste Italiane, previa identificazione, ad un soggetto che successivamente risultava non essere l’effettivo beneficiario del titolo, di guisa che la società assicuratrice, attrice nel giudizio risarcitorio, aveva dovuto emettere altro assegno a favore dell’assicurato.
Tale vicenda si inscrive nel tema concernente la natura della responsabilità della banca negoziatrice di assegno non trasferibile, affrontato nelle sentenze n. 12477 e 12478/2018 delle Sezioni Unite.
Queste ultime, risolvendo il contrasto giurisprudenziale formatosi tra l’indirizzo che riconosceva alla disposizione della L. n. 1736 del 1933, art. 43, comma 2 – applicabile anche all’assegno circolare in virtù del richiamo contenuto nel successivo art. 86 della stessa legge e per cui colui che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso risponde del pagamento carattere derogatorio sia alla disciplina di circolazione del titolo di credito a legittimazione variabile, sia alla disciplina ordinaria della responsabilità per inadempimento ex art. 1189 c.c., nel caso di pagamento al creditore apparente (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 3133 del 07/10/1958; id. Sez. 1, Sentenza n. 1098 del 09/02/1999; id. Sez. 1, Sentenza n. 3654 del 12/03/2003; id. Sez. 1, Sentenza n. 18543 del 25/08/2006; id. Sez. 1, Sentenza n. 7949 del 31/03/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 22816 del 10/11/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 18183 del 25/08/2014 ed id. Sez. 1, Sentenza n. 3405 del 22/02/2016; Id. Sez. 1, Sentenza n. 14777 del 19/07/2016; id. Corte Sez. 63, Ordinanza n. 4381 del 21/02/2017) ed il diverso filone giurisprudenziale, secondo cui la disciplina della responsabilità per l’inadempimento della banca negoziatrice o girataria per l’incasso non diverge da quella comune ex artt. 1176 , 1189 e 1218 c.c. (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2360 del 09/07/1968; id. Sez. 1, Sentenza n. 3317 del 05/07/1978; id. Sez. 1, Sentenza n. 686 del 25/01/1983; id. Sez. 1, Sentenza n. 9888 del 11/10/1997) hanno affermato il seguente principio: ” Ai sensi del R.D. n. 1736 del 1933 , art. 43 , comma 2, (c.d. legge assegni), la banca negoziatrice chiamata a rispondere del danno derivato – per errore nell’identificazione del legittimo portatore del titolo – dal pagamento dell’assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola non trasferibilità a persona diversa dall’effettivo beneficiario, è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’art. 1176 c.c., comma 2″. In particolare, le Sezioni Unite hanno chiarito che la responsabilità della banca negoziatrice ex art. 43 L. assegni è di natura contrattuale “da contatto”, in ragione dell’obbligo professionale di protezione operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine dell’operazione; ne hanno tratto la conseguenza che la responsabilità della banca negoziatrice da contatto qualificato – inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c. e dal quale derivano i doveri di correttezza e buona fede enucleati dagli artt. 1175 e 1375 c.c. – non è oggettiva e cioè non ricorre “a prescindere dalla sussistenza dell’elemento della colpa nell’errore sull’identificazione del prenditore”. Su tale premessa, le Sezioni Unite hanno ricordato infatti che – come da principio consolidato di legittimità – in detta ipotesi si applica il regime probatorio di cui all’art. 1218 c.c.: è perciò consentito all’obbligato di fornire la prova liberatoria che il dedotto inadempimento non gli è imputabile, ovvero non è dovuto a suo fatto e colpa, con la precisazione che la banca negoziatrice essendo tenuta ad osservare nell’adempimento la diligenza di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, in ragione della sua qualità di operatore professionale – risponde del danno anche in ipotesi di “colpa lieve”, ove non abbia fornito la prova liberatoria di avere assolto la propria obbligazione con la diligenza dovuta. Inoltre, le Sezioni Unite hanno evidenziato la specificità della previsione di cui all’art. 43 L. assegni, comma 2, giacchè la clausola di intrasferibilità ha la funzione, oltre che di assicurare il pagamento del beneficiario, di impedire la circolazione del titolo, di guisa che la sanzione di responsabilità cartolare (conseguente al pagamento a soggetto non legittimato) non va confusa con la responsabilità civile derivante dall’errata identificazione dell’effettivo prenditore, osservando che in questi sensi l’art. 43 si pone in rapporto di specialità rispetto alle norme di diritto comune sia in tema di obbligazioni – art. 1189 c.c., comma 1, (pagamento al creditore apparente) -, sia rispetto a quella riferita ai titoli a legittimazione variabile – art. 1992 c.c., comma 2, (adempimento della prestazione) che circoscrivono entrambe detta responsabilità alle ipotesi di dolo o colpa grave.
Tanto rilevato, va osservato che la ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto che Poste Italiane s.p.a. avesse dimostrato- fornendo la prova liberatoria ex art. 1218 c.c.- di aver agito con la dovuta diligenza, ex art. 1176 c.c. in ordine alla vicenda della presentazione dell’assegno di traenza all’incasso da parte di soggetto munito di documento di riconoscimento, le cui generalità corrispondevano al prenditore del titolo. Al riguardo, la ricorrente tende al riesame dei fatti inerenti alla questione della prospettata responsabilità di Poste Italiane s.p.a.; invero, la sentenza impugnata non merita censure in punto di diritto, sulla questione dell’omessa verifica della falsità del documento esibito dal possessore del titolo, avendo essa effettuato una corretta ricognizione delle norme invocate dalla ricorrente, in conformità dei suddetti principi fissati dalle SU, non essendo richiesta alla banca negoziatrice un livello di diligenza implicante ulteriori controlli all’atto dell’incasso (cfr. SU, n. 14712/07 e 12477/18). Peraltro, giova altresì rilevare che dagli atti è emerso che l’accensione del conto da parte del soggetto che ha presentato il titolo all’incasso era avvenuta anteriormente alla denuncia del furto del documento d’identità da parte del soggetto legittimo beneficiario dell’assegno di traenza.
Inoltre, nel caso di specie non può essere riconosciuta alcuna natura precettiva ovvero cogente (come tale idonea ad integrare la “parte mobile” della clausola generale normativa) ad un “regolamento”-ABI (che raccomandava la verifica di documento di riconoscimento munito di foto) che non introduce, in realtà, alcuna prescrizione per gli associati, ma si limita solo a “segnalare l’opportunità” a quest’ultimi di adottare prassi operative virtuose dirette a scongiurare il rischio di essere convenuti in giudizio in eventuali contenziosi risarcitori, e ciò peraltro con riferimento ad un richiamato mutamento giurisprudenziale in punto di interpretazione dell’art. 43 L. assegni, da ritenersi – come sopra evidenziato – ormai superato, proprio grazie all’ultima pronuncia resa in sede nomofilattica da questa Corte (cfr. sent. n. 34108/19).
Nè sono emerse nella fattispecie altre circostanze anomale espressive di mancata diligenza della banca negoziatrice nel pagamento del titolo, oggetto di specifica allegazione nel ricorso.
Pertanto la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio.

Nullità contratto di fornitura energetica – Firma Falsa – arricchimento senza causa – fornitura non richiesta – art. 57 Codice del Consumo

Nota di Redazione a cura dell’ Avv. Valerio Di Giorgio

La sentenza in commento (Cass. civ., Sez. III, 12/01/2021, n. 261) pone in esame la controversia con cui Enel Energia S.p.a. propose appello avverso la sentenza n. 809/2011 emessa dal Giudice di Pace di Fasano, con la quale, in accoglimento delle domande proposte dal consumatore, era stata dichiarata la nullità, per mancata autenticità della sottoscrizione contrattuale dell’attore stesso, del contratto di fornitura di energia elettrica. Pertanto era stato accertato che nulla era dovuto a detta società per la fornitura di energia elettrica e gas in favore dell’attore ed era stata pronunciata la condanna di Enel Energia S.p.a. alla restituzione di Euro 463,84 nonchè al risarcimento dei danni non patrimoniali nella misura di Euro 700,00; inoltre, erano state rigettate le domande proposte dalla stessa Enel Energia S.p.a. nei confronti del terzo chiamato in causa (Zerocorp di D.G.L.A.), quale agente di commercio responsabile della falsificazione della firma nelle scritture contenenti i contratti di fornitura di energia elettrica.
L’appellante dedusse che erroneamente il Giudice di Pace aveva rigettato l’eccezione riconvenzionale di arricchimento senza causa proposta in via subordinata avendo illegittimamente applicato l’art. 57 , comma 1, del Codice del Consumo, interpretando detta norma nel senso che, in caso di nullità del contratto, all’ente fornitore non competeva alcun compenso, nemmeno a titolo di arricchimento senza causa. Secondo l’appellante, invece, a tale ente competeva comunque l’indebito arricchimento pari al minor compenso che l’utente avrebbe continuato a corrispondere al precedente fornitore – Enel Servizio Elettrico S.p.a. – in base al preesistente contratto di fornitura con detta società. L’appellante contestò la decisione di primo grado anche nella parte in cui il Giudice di pace aveva rigettato le domande di manleva e risarcitorie avanzate nei confronti della chiamata in causa, Zerocorp di D.G.L.A., sostenendo che erroneamente quel Giudice aveva ritenuto non provata la riferibilità alla Zerocorp del modulo di adesione al contratto di fornitura che recava la falsificazione della firma, evidenziando che, invece, tale riferibilità risultava per tabulas dal contenuto del modulo contrattuale in questione, su cui era annotato il codice dell’Agenzia, che contraddistingueva solo ed esclusivamente quell’agente.
Il Tribunale di Brindisi, in accoglimento dell’appello e in totale riforma dell’impugnata sentenza, rigettò tutte le domande proposte dal consumatore in primo grado e condannò lo stesso alla rifusione, in favore di Enel Energia S.p.a., delle spese del doppio grado del giudizio di merito.
Avverso la sentenza della Corte di merito il consumatore ha proposto ricorso per cassazione, basato su quattro motivi e illustrato da memoria.
Enel Energia S.p.a. ha resistito con controricorso illustrato da memoria.
Con il primo motivo si deduce “Violazione e falsa e/o erronea applicazione di norme di diritto con riferimento al D.Lgs. n. 206 del 2005 , art. 57 , comma 1, vigente ratione temporis in relazione al concetto di “fornitura non richiesta” ed alla eccezione riconvenzionale di indebito arricchimento”.
Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto illegittima l’applicazione, da parte del Giudice di pace, del citato art. 57, con riferimento alla ritenuta mancanza di richiesta della fornitura, e ha conseguentemente accolto l’eccezione riconvenzionale di indebito arricchimento proposta in primo grado da Enel Energia S.p.a. e denuncia che il Giudice di appello abbia ritenuto “non richiesto” il nuovo fornitore ma non la fornitura, sul rilievo che il consumatore, dopo aver contestato e disconosciuto il rapporto contrattuale con Enel Energia S.p.a., aveva formulato istanza di rientro con il precedente fornitore.
Sostiene, invece, il ricorrente che l’art. 57 citato sarebbe perfettamente applicabile al caso di specie, stante la nullità o l’inesistenza del contratto con Enel Energia S.p.a. perché corredato da sottoscrizione palesemente contraffatta e per la quale era stata presentata querela.
Premesso che per fornitura non richiesta deve intendersi “quella fornitura di beni o di servizi (tra cui anche quella di energia elettrica), che comporti una controprestazione economica per la quale il consumatore non abbia preventivamente manifestato il proprio consenso e/o non ne abbia previamente ordinato l’esecuzione”, il ricorrente assume che, nel caso all’esame, sussisterebbero tutti gli elementi individuati dal legislatore per l’applicazione del già richiamato art. 57, in quanto: a) vi è una fornitura elettrica mai richiesta dal consumatore, per la quale è previsto il pagamento di un prezzo, b) trattasi di fornitura diversa da quella precedente, unica richiesta dal consumatore, che, prima del passaggio con Enel Energia S.p.a. (determinato da un contratto falso), si avvaleva della fornitura di Enel Servizio Elettrico S.p.a., diverso gestore; c) Enel Energia S.p.a., pur facendo parte del gruppo Enel, è società del tutto distinta da Enel Servizio Elettrico S.p.a., dalla quale si differenzia sia come soggetto giuridico (partita IVA, codice fiscale, intestazione, ecc.), sia in quanto opera nel cd. mercato libero dell’energia in concorrenza con le altre società elettriche laddove, invece, Enel Servizio Elettrico S.p.a. (ora Servizio Elettrico Nazionale S.p.a.) opera nel cd. mercato di maggior tutela, in regime di sostanziale monopolio, pur sempre a garanzia del consumatore; d) i contratti stipulati nei due mercati prevedono una regolamentazione del tutto diversa; e) nel caso all’esame non sarebbe configurabile nè una novazione soggettiva nè una novazione oggettiva.
Assume il ricorrente che “a non essere richiesta non è solo la fornitura da un soggetto diverso dal precedente ma proprio quella fornitura alle nuove e diverse condizioni contrattuali” e di non aver mai avuto la volontà di usufruire dei servizi contrattuali forniti da Enel Energia S.p.A., peraltro a condizioni difformi e peggiorative.
La ratio dell’art. 57, si coglierebbe ancor di più, ad avviso del ricorrente, analizzando l’art. 27 della direttiva 2011/83/UE , direttiva ora recepita dal D.Lgs. n. 21 del 2014 , che ne ha trasfuso il testo nell’art. 66-quinquies Codice del Consumo che ha sostituito il già citato art. 57; trattandosi di norme imperative, sia l’art. 57, che l’art. 66-quinquies, prevalgono su qualsiasi Delib. dell’AEEG di segno contrario. Ne consegue, secondo il ricorrente, che non può interpretarsi in alcun modo l’art. 57, nel senso che tale norma sia applicabile solo all’ipotesi di una nuova fornitura intesa come fornitura riferita ad un’utenza mai prima di allora servita da altro contratto e/o altro operatore elettrico.
Il ricorrente contesta, infine, che il quantum dovuto sia pacifico, trattandosi di dichiarazione chiaramente subordinata alla denegata ipotesi in cui non fosse stato ritenuto applicabile nel caso di specie l’art. 57 e dettata dal fine di evitare inutili e dispendiose integrazioni istruttorie (c.t.u. antieconomica, dovendo, nell’ipotesi formulata dal Tribunale, restituire all’attuale controricorrente l’importo di Euro 463,84).
Secondo gli Ermellini Il motivo è fondato in base alle considerazioni che seguono:
Il Tribunale ha ritenuto non applicabile l’art. 57 Codice di Consumo, nella formulazione ratione temporis vigente, sul rilievo che, nella specie, non sussisterebbe la fattispecie, regolata dalla predetta norma, della fornitura non richiesta dal consumatore in quanto non era la fornitura ad essere “non richiesta”, riferendosi peraltro a servizi essenziali, bensì “non richiesti” erano il nuovo fornitore e soprattutto le diverse e più gravose condizioni economiche imposte con la nuova tariffa. Afferma il Giudice di secondo grado che, dovendosi interpretare il contratto secondo buona fede, è evidente che l’interesse dell’utente non era quello di non beneficiare dei servizi in oggetto bensì quello di ricevere la fornitura dal precedente fornitore e di mantenere le condizioni contrattuali da questi accordate, tanto è vero che il consumatore non aveva chiesto l’interruzione della fornitura in questione ma aveva formulato l’istanza di tornare a ricevere la stessa dal precedente fornitore. Il Tribunale ha conseguentemente ritenuto che, pur ricorrendo la nullità dei contratti di fornitura elettrica e di gas, non si configurerebbe la fattispecie della “fornitura non richiesta” regolata dall’art. 57 citato e costituente il presupposto, ad avviso di quel Giudice, necessario per l’affermazione che nessun costo debba essere posto a carico del consumatore. Sulla base di tali considerazioni il Tribunale ha, quindi, ritenuto di accogliere l’eccezione riconvenzionale di indebito arricchimento proposta dall’attuale controricorrente, “nel senso che, stante l’inesistenza del titolo contrattuale, non può trovare giustificazione nell’ordinamento la sbilanciata pretesa da parte dell’utente del totale risparmio dei costi che egli avrebbe dovuto comunque sostenere, in base alle condizioni contrattuali di maggior favore instaurate con il precedente gestore, per i quantitativi di corrente elettrica e di gas che in concreto e di fatto gli sono stati forniti dal nuovo gestore”.
Così decidendo il Tribunale è incorso in un vizio di sussunzione correttamente veicolato dal ricorrente con l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare condivisibilmente che “quando il giudice di merito, dopo avere ricostruito la quaestio facti secondo le allegazioni e le prove offerte dalle parti individua i termini della c.d. fattispecie concreta e, quindi, riconduce quest’ultima ad una fattispecie giuridica astratta piuttosto che ad un’altra cui sarebbe in realtà riconducibile oppure si rifiuta di ricondurla ad una certa fattispecie giuridica astratta cui sarebbe riconducibile o a qualunque fattispecie giuridica astratta, mentre ve ne sarebbe una cui potrebbe essere ricondotta, la valutazione così effettuata e la relativa motivazione, non inerendo più all’attività di ricostruzione e, dunque, di apprezzamento dei fatti storici, bensì all’attività di qualificazione in iure di essi e, dunque, ad un giudizio normativo, è controllabile e deve essere controllata dalla Corte di Cassazione nell’ambito del paradigma del n. 3 dell’art. 360 c.p.c..
In tal caso, infatti, fa parte del sindacato di legittimità (alla stregua del) detto paradigma secondo la specie cui il legislatore allude con la nozione di “falsa applicazione di norme di diritto”, il controllare se la fattispecie concreta (assunta così come ricostruita dal giudice di merito e, dunque, senza che si debba procedere ad una valutazione diretta a verificarne l’esattezza e meno che mai ad una diversa valutazione e ricostruzione o apprezzamento ricostruttivo), è stata ricondotta a ragione o a torto alla fattispecie giuridica astratta individuata dal giudice di merito come idonea a dettarne la disciplina oppure al contrario doveva essere ricondotta ad altra fattispecie giuridica oppure ancora era irriconducibile ad una fattispecie giuridica astratta, sì da non rilevare in iure, oppure ancora non è stata erroneamente ricondotta ad una certa fattispecie giuridica cui invece doveva esserlo, essendosi il giudice di merito rifiutato expressis verbis di farlo (c.d. vizio di sussunzione o di rifiuto di sussunzione)” (Cass. 31/05/2018, n. 13747).
Nel caso all’esame, infatti, deve ritenersi che la fattispecie concreta, come accertata dal Giudice del merito, deve essere ricondotta alla fattispecie giuridica disciplinata dall’art. 57 del Codice di consumo, rubricato “Fornitura non richiesta”, nella versione applicabile ratione temporis secondo cui:
“1. Il consumatore non è tenuto ad alcuna prestazione corrispettiva in caso di fornitura non richiesta. In ogni caso l’assenza di risposta non implica consenso del consumatore.
2. Salve le sanzioni previste dall’art. 62, ogni fornitura non richiesta di cui al presente articolo costituisce pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 21, 22, 23, 24, 25 e 26″.
Nella specie risulta evidente che si è in presenza di “fornitura non richiesta”, nei termini indicati dalla norma richiamata, trattandosi di fornitura erogata da soggetto diverso in base ad un contratto pacificamente non sottoscritto dal consumatore e recante firma falsa, nè rileva la circostanza che l’esecuzione materiale della fornitura, per esigenze tecniche, non possa che essere la stessa e che trattasi di servizi essenziali, rimarcandosi che il consumatore, che è venuto a conoscenza di siffatto contratto dalle fatture, non poteva restituire o impedire la fornitura non richiesta (se non, a tale ultimo riguardo, come in effetti fatto, denunciando, una volta resosene conto, la contraffazione della sottoscrizione e chiedendo di ricevere la medesima fornitura dal precedente gestore).
Se dunque, la norma applicabile nella specie è quella di cui all’art. 57 citato, occorre stabilire se tale normativa, oltre ad escludere qualsiasi prestazione corrispettiva a carico del consumatore, escluda ogni sorta di “ripetibilità”, da parte del fornitore, della “prestazione” resa sine causa, perfino nel caso in cui quest’ultimo faccia valere l’arricchimento senza causa, ai sensi dell’art. 2041, sia in via d’azione che – come nel caso all’esame – di eccezione riconvenzionale, proposta al solo scopo di paralizzare la domanda dell’attore.
Ritiene il Collegio che la questione vada risolta tenendo conto della ratio della norma di cui all’art. 57, già più volte citato, che è chiaramente norma volta a tutelare il consumatore e ad esonerarlo da oneri conseguenti a pratiche commerciali scorrette, anche alla luce delle direttive CE sulle pratiche sleali e ingannevoli (v. direttive 1997/7/CE , 2002/65/CE e 2005/29/CE) e della disciplina, non applicabile direttamente al caso di specie ratione temporis (essendo applicabile ai contratti conclusi dopo il 13 giugno 2014, come disposto dal D.Lgs. 21 febbraio 2014, n. 21 , art. 2 , comma 1) ma a cui può farsi riferimento ai fini meramente interpretativi, dell’art. 66-quinquies Codice di consumo, norma inserita con il D.Lgs., appena indicato e volto a dare attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori.
In tale prospettiva, l’espressione “Il consumatore non è tenuto ad alcuna prestazione corrispettiva in caso di fornitura non richiesta” contenuto nell’art. 57 citato, ad avviso del Collegio, deve essere intesa come comprendente anche le obbligazioni restitutorie e indennitarie da indebiti solutio e/o da ingiustificato arricchimento rivendicate.
Se è pur vero che il consumatore abbia comunque tratto vantaggio dalla fornitura non richiesta o – come nel caso all’esame – addirittura imposta, tenuto conto delle peculiari modalità di erogazione della fornitura in questione, in base ad un contratto con sottoscrizione falsificata, tuttavia deve ritenersi che il legislatore abbia inteso far prevalere gli interessi della parte debole del contratto a discapito di soggetto che abbia scelto unilateralmente e illecitamente di procedere alla fornitura, di tal chè sul fornitore debbono ricadere, in ogni caso, le conseguenze derivanti da tale comportamento.
Ben potendosi riconoscere, per quanto sopra esplicitato, all’art. 57 citato anche una valenza latamente sanzionatoria, nell’ambito delle “prestazioni corrispettive”, da intendersi richiamate dal legislatore in senso atecnico, ritiene il Collegio debba rientrare anche l’indennizzo di cui all’art. 2041 c.c..
Pertanto, risultando il contratto illecito in questione ascrivibile comunque ad Enel Energia S.p.a. ed alla luce della interpretazione data dell’art. 57 citato, ritiene il Collegio che all’appena indicata società non spetti alcunchè per la fornitura in parola, neppure a titolo di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c., non avendo il consumatore prestato alcun consenso al riguardo, il che è pacifico.
La Corte pertanto accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Brindisi, in persona di diverso magistrato, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.