Scrittura e disegno, oltre che essere due modalità grafiche di comunicazione, sono due forme di espressione della personalità di chi disegna e/o scrive; da tempo scienze umane come la psicologia e la grafologia, ognuna nel proprio ambito di studio, ricerca e applicazione, hanno compreso l’utilità dell’analisi della produzione grafica dell’essere umano allo scopo di comprenderne le problematiche esistenziali.
L’analisi psicologica e grafologica di scarabocchi e disegni dei bambini, anche prima che essi imparino a scrivere, è un utile strumento per comprendere comportamenti e caratteristiche di sviluppo nei primi anni di vita, quando ancora il piccolo dell’uomo non sa esprime adeguatamente con le parole sensazioni e sentimenti che riguardano il suo vissuto.
In effetti qualsiasi adulto che si trovi di fronte a un bambino che si cimenta a scarabocchiare si sofferma affascinato ad osservare tentativi, sforzi, ma soprattutto il coinvolgimento totale con cui il bambino si impegna nel suo compito. E lo stupore che coglie le persone quando hanno la ventura di vedere dal vivo i segni che gli uomini primitivi hanno tracciato nelle caverne o sulle rupi, con le mani impastate prima nell’argilla o con le punte taglienti dei sassi o coi tizzoni carbonizzati dal fuoco, è molto simile a quello che invade gli adulti quando vedono un bambino piccolo tracciare per la prima volta con matite o pennarelli dei segni su un foglio.
Forse è lo stesso stupore che prova il bambino nell’accorgersi che può lasciare dei segni che rimangono fissi, non scompaiono e, appena se ne distacca, diventano altro da lui. Lasciando quei segni sul foglio, si accorge di esistere, di essere una cosa separata dal mondo circostante: quei segni sono i testimoni della sua presenza, del suo esserci nel mondo. Pur senza esserne consapevole, inizia in quel fatidico momento il suo cammino nel mondo dei simboli.
LO SCARABOCCHIO
Già a partire dal primo anno di vita i bambini, se sono messi in condizione di poterlo fare, amano utilizzare matite, pennarelli, oltre che le proprie mani, su qualunque superficie sia disponibile. Si tratta solo di un esercizio motorio? Vi è in questi disegni un intento rappresentativo e comunicativo? E’ difficile dirlo; forse inizialmente vi è solo la necessità di scaricare all’esterno energie pulsionali e solo in un secondo momento , spesso alla domanda dell’adulto che chiede “Che cos’è?”, il bambino attribuisce al disegno un qualche significato. Tuttavia queste sollecitazioni dell’adulto, nel tempo spingono il bambino a provare a vedere che cosa vien fuori facendo questi segni, per poi scoprire, contento, che quanto ha fatto rappresenta pur qualcosa.
La fase dello scarabocchio dura solitamente da 1 a 3 anni e viene chiamata da Luquet, psicologo e studioso del disegno infantile, REALISMO FORTUITO, per indicare, appunto che eventuali risultati non sono frutto di intenzionalità, ma di una ‘ scoperta’ successiva.
Si entra poi in una fase che vede il passaggio dallo scarabocchio al disegno, fase che Luquet chiama del REALISMO MANCATO , caratterizzata da intenzionalità rappresentativa . Il bambino cioè, fin dall’inizio cerca di rappresentare qualcosa , ma egli ha desideri, intenzioni ed aspettative superiori ai risultati ( o almeno così lui li valuta). Può così succedere che egli ci dica che vuol fare un’automobile, ma che poi, osservando a metà strada che cosa sta facendo, egli cambi idea e ci dica che sta facendo una barca, per cambiare idea ancora. Quella del realismo mancato è una fase molto delicata: il bambino può vivere in modo molto frustrante i comportamenti dell’adulto che sottolineano le sue incapacità.
IL DISEGNO ATTRAVERSO SCHEMI
Proprio sulla base dell’esperienza precedente il bambino, in una fase successiva, può trovar fiducia disegnando le cose che ha imparato a far bene. Un soggetto tipico è la figura umana rappresentata in modo caratteristico dai 3 anni, anche prima, l’ “omino testone”: un cerchio che rappresenta la testa (ma in un certo senso anche il corpo) con i particolari degli occhi e della bocca (a volte con il naso , le orecchie e i capelli), a cui sono attaccate direttamente braccia e gambe, disegnate in un sol tratto ciascuna e che non sempre finiscono con mani e piedi. Tra i 4 e i 6/7 anni la figura umana viene rappresentata con altri particolari: gambe e braccia con tratto doppio, il collo tra testa e corpo, i vestiti; inoltre compare lo sfondo e la scena si arricchisce di altri elementi, soprattutto case, animali, alberi, fiori, automobili e, in alto, il sole. Le figure tendono ad essere schematiche e statiche, in posizione frontale, senza rispetto delle proporzioni.
Tutto ciò è coerente con il pensiero intuitivo tipico della fase preoperatoria (Piaget): il bambino è in grado di effettuare collegamenti, corrispondenze, ecc…, ma in forma limitata perché riesce con difficoltà a coordinare fra loro due o più rapporti ( altezza, larghezza, profondità, lontananza, vicinanza…). Inoltre il bambino non disegna ciò che vede, ma ciò che sa e ricorda e questo ha portato alla definizione di Luquet di REALIMO INTELLETTUALE: ad esempio, il bambino può disegnare le abitazioni in cui si vedono dal di fuori gli interni, o il bambino nella pancia della mamma.
IL DISEGNO DELLA REALTA’
Verso gli 8-9 anni il bambino cerca di rispettare il più possibile la realtà così come essa è visibile da un particolare punto di vista. Inizia la fase del REALISMO VISIVO (Luquet) in cui appaiono i primi tentativi di rappresentare il movimento, le persone vengono disegnate anche di profilo e i sessi vengono differenziati sia nelle forme che nell’abbigliamento e nel trucco. Con l’adolescenza, a partire da 11-12 anni inizia una particolare attenzione alla prospettiva e aumenta anche l’interesse decorativo. La valutazione delle proprie capacità può essere tale da indurre il ragazzo a ritenersi ‘negato’ per il disegno tanto da smettere di disegnare o limitarsi a disegni di tipo geometrico.
CONCLUSIONE
Questo veloce excursus sulle modalità di evoluzione del disegno infantile serve a chiarire a chiunque voglia avventurarsi nell’interpretazione grafologica degli elaborati infantili, come egli debba prescindere dall’aderenza alla realtà figurativa dell’adulto; ormai sappiamo, attraverso la ricerca psicologica, che c’è dell’altro nel disegno del bambino: egli attraverso tracce grafiche e colori ci svela una parte del suo mondo e di se stesso, perché vi ha trasferito attraverso il segno impulsi ed idee che via via sa organizzare e ad esprimere in modo che gli altri possano comprenderle.
Elisabetta Agnoloni
Psicopedagogista, insegnante grafologa esperta dell’età evolutiva,
già docente di filosofia, psicologia e scienze pedagogiche nei Licei