In tema di titoli di credito, nel caso di pagamento da parte di una banca di un assegno con sottoscrizione apocrifa, l’ente creditizio può essere ritenuto responsabile non a fronte della mera alterazione del titolo, ma solo nei casi in cui tale alterazione sia rilevabile “ictu oculi”, in base alle conoscenze del bancario medio, il quale non è tenuto a disporre di particolari attrezzature strumentali o chimiche per rilevare la falsificazione, né è tenuto a mostrare le qualità di un esperto grafologo.
Con atto di citazione notificato in data 04.07.11 la società F.S. Spa A. (ora U.A. Spa) conveniva in giudizio P.I. S.p.A. innanzi al Tribunale di Napoli chiedendo all’adito giudice: “previa ogni opportuna declaratoria, anche in ordine alla responsabilità della convenuta, condannare la medesima, in persona del proprio legale rappresentante pro tempore, al pronto pagamento in favore dell’attrice della somma complessiva di Euro 5.177,17 oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dal diritto al saldo effettivo, per i motivi di cui alla premessa del presente atto…con vittoria di ogni spesa ed onorario di lite, ed oneri fiscali, pure quelle della fase stragiudiziale”.
A sostegno della domanda, la società attrice rappresentava che:
- nell’ambito del rapporto di conto corrente intrattenuto con la B.P. di N., aveva emesso gli assegni nr. (…), (dell’importo di Euro 3.600,00, a favore di A.D.) e nr. (…) (dell’importo di Euro 1.577,17, a favore di P.A.);
- i detti titoli, dopo essere stati contraffatti nei nomi dei beneficiari, erano stati posti all’incasso presso uno sportello di P.I. da persona diversa dai beneficiari e, precisamente da tale V.R.;
- a seguito dei fatti descritti, aveva dovuto procedere all’emissione di altri titoli, di pari importi, in favore degli effettivi intestatari;
- con lettera raccomandata aveva richiesto, senza esito, il risarcimento dei danni a P.I., che si era resa responsabile per “non avere pagato l’assegno all’effettivo beneficiario”, non avendo “rilevato le palesi alterazioni dei titoli relative ai nomi dei beneficiari”.
Si costituiva in giudizio P.I., chiedendo il rigetto della domanda.
Il Tribunale di Napoli, con la sentenza impugnata, così provvedeva: “…rigetta la domanda; condanna parte attrice al pagamento delle spese di lite in favore di parte convenuta, che quantifica in Euro 800,00 oltre iva cassa e spese ctu e spese generali”.
Avverso tale sentenza, la U.A. Spa ha proposto impugnazione, con atto di impugnazione notificato il 2 marzo 2017, così concludendo: “Voglia l’Ecc.ma Corte Adita, reiectis adversis, previa ogni opportuna declaratoria, anche in ordine alla responsabilità della convenuta P.I. SpA, condannare la medesima al pronto pagamento in favore dell’attrice della complessiva somma di Euro 5.177,17, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dal diritto al saldo effettivo per ogni singolo titolo. Con vittoria di ogni spesa ed onorario di lite, rimborso forfettario 15% spese generali, ivi comprese spese di eventuale CTU e CTP, del presente giudizio ed oneri fiscali, pure quelle della fase stragiudiziale e del giudizio svoltosi avanti al Tribunale”.
Si è costituita in giudizio P.I. S.p.A., chiedendo il rigetto dell’appello e la conferma dell’impugnata sentenza.
All’esito dell’udienza del 30 marzo 2023, svoltasi con le modalità di cui all’art. 127 ter c.p.c., ossia mediante lo scambio e il deposito in telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni, la Corte riservava la causa in decisione, con la concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.
I motivi di impugnazione
Con il primo motivo di impugnazione, titolato “Il fondamento giuridico della responsabilità ex art. 43 legge assegno (2 comma): l’irrilevanza della colpa e della rilevabilità o meno della contraffazione ai fini della violazione della clausola di intrasferibilità”, l’appellante contesta la decisione del primo giudice rilevando che l’art. 43 L.A., ai co. 1 e 2 non fa riferimento alla eventuale colpa di chi paga e, dunque, sarebbe irrilevante che il giratario per l’incasso abbia o meno una colpa nel pagare un assegno non trasferibile a persona diversa dal beneficiario.
La censura è palesemente infondata.
Con pronuncia a Sezioni Unite n. 12477/2018, la Suprema Corte, componendo un contrasto insorto tra le sezioni semplici sull’interpretazione dell’art. 43, comma 2 L.A., ha ricondotto la responsabilità della banca per illegittima negoziazione di assegni nell’alveo della responsabilità contrattuale, avendo la banca negoziatrice (o la banca trattaria che abbia pagato il titolo in stanza di compensazione) un obbligo professionale di protezione operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione.
In particolare, la Corte di legittimità ha chiarito che “ai sensi del R.D. n. 1736 del 1933 , art. 43 , comma 2 (c.d. legge assegni), la banca negoziatrice chiamata a rispondere del danno derivato – per errore nell’identificazione del legittimo portatore del titolo – dal pagamento dell’assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola non trasferibilità a persona diversa dall’effettivo beneficiario, è ammessa a provare che l’inadempimento non le è imputabile, per aver essa assolto alla propria obbligazione con la diligenza richiesta dall’art. 1176 c.c., comma 2”.
Può ritenersi, dunque, ormai consolidato l’orientamento secondo cui sulla banca negoziatrice grava, ai sensi dell’art. 43 , comma 2, R.D. n. 1736 del 1933 , l’obbligo di procedere con diligenza nell’identificazione del soggetto che si presenta per l’incasso di un assegno non trasferibile e che, in caso di inadempimento di tale obbligo, la responsabilità che si delinea è di natura contrattuale e trova fondamento negli artt. 1176 e 1218 c.c.
Ne consegue il rigetto del motivo di impugnazione.
Con il secondo motivo di impugnazione (rubricato “La implicita contraddizione tra quanto statuito dal Tribunale circa la diligenza da attribuirsi alla Banca soggetto professionale. Il parametro della diligenza dell’esperto banchiere (neppure richiamata o specificata nelle sue linee essenziali) di cui all’art. 1176 2 comma c.c.”), l’appellante sostiene che il Tribunale sposando l’affermazione del CTU, secondo cui “la falsità del nome del beneficiario nell’assegno non poteva essere agevolmente verificata con la diligenza media richiesta all’operatore postale, bensì solo con strumenti specifici”, sarebbe incorso in un duplice errore, in quanto l’esame “ictu oculi” non sarebbe sufficiente ad elidere la responsabilità della banca negoziatrice e la diligenza professionale dell’esperto banchiere (neanche espressamente indicata dal primo giudice) non avrebbe potuto essere relegata al rango di una diligenza media, essendo richiesta al bancario una elevata professionalità ed una diligenza qualificata, tipiche del settore di competenza, per specificare le quali occorrerebbero regole ed attitudini che – proprio perché connesse all’esercizio professionale di una attività – nessuno possiede, se non un operatore del settore.
Inoltre, gli accertamenti del CTU, recepiti dal primo giudice, sarebbero frutto di un’indagine “approssimativa”, in quanto, per l’assegno n. (…), dell’importo di Euro 1.577,17, contraffatto nel nome del beneficiario (“R.V.”), l’ausiliario non avrebbe evidenziato diverse anomalie ed in particolare la cancellazione e ritrascrizione dell’importo alfabetico del titolo e del nominativo.
Il motivo di impugnazione non è fondato.
Nella sentenza impugnata, differentemente da quanto ritenuto dall’impugnante, il giudice di primo grado descrive puntualmente la diligenza richiesta alla Banca negoziatrice ai sensi degli artt. 1176 c. 2 1992 comma 2 c.c., osservando: “In ordine alla natura della diligenza da impiegarsi, giurisprudenza costante, suole ricondurre l’obbligazione di controllo del legittimato al pagamento, della banca negoziatrice, ( unica concretamente in grado di controllare l’autenticità della firma di chi, girando l’assegno per l’incasso, lo immette nel circuito di pagamento, ) nel dovere di valutazione in concreto utilizzando la diligenza richiesta al bancario medio, sulla base delle sue conoscenze, essendo applicabili all’attività bancaria le disposizioni di cui agli artt. 1176 , comma 2, e 1992, comma 2, c.c.
Ne consegue l’insufficienza della mera rilevabilità dell’alterazione, da non confondersi con la mera anomalia che non integra una falsificazione, occorrendo che la stessa sia riscontrabile “ictu oculi”, attraverso un attento esame diretto, visivo o tattile dell’assegno da parte dell’impiegato addetto, che non deve essere un esperto grafologo ma in possesso di comuni cognizioni teorico-tecniche, ovvero anche tramite mezzi e strumenti di agevole utilizzo e reperibilità, senza che debba ricorrersi ad attrezzature tecnologiche sofisticate e di difficile e dispendioso reperimento (cfr. Cass. 1377 del 2016 ).
Quindi, controllo accurato, sicuramente, ma non alla luce di mezzi, tecnologie sofisticate non comuni (…)”
Tali coordinate ermeneutiche devono essere senz’altro condivise, atteso che, come più volte chiarito dalla suprema Corte, al fine di valutare la sussistenza della responsabilità colposa della banca negoziatrice nell’identificazione del presentatore del titolo, la diligenza professionale richiesta deve essere individuata ai sensi dell’art. 1176 , comma 2, c.c., che è norma “elastica”, da riempire di contenuto in considerazione dei principi dell’ordinamento, come espressi dalla giurisprudenza di legittimità, e dagli “standards” valutativi esistenti nella realtà sociale che, concorrendo con detti principi, compongono il diritto vivente (cfr. sentenza n. 34107/2019).
Nello specifico, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, la diligenza qualificata richiesta al banchiere nell’adempimento della propria obbligazione di protezione implica che “nel caso di pagamento da parte di una banca di un assegno con sottoscrizione apocrifa, l’ente creditizio può essere ritenuto responsabile non a fronte della mera alterazione del titolo, ma solo nei casi in cui tale alterazione sia rilevabile “ictu oculi”, in base alle conoscenze del bancario medio, il quale non è tenuto a disporre di particolari attrezzature strumentali o chimiche per rilevare la falsificazione, né è tenuto a mostrare le qualità di un esperto grafologo” (Cass. 16178/2018 ; Cass. 20292/2011 , n, 2666/2019).
Nella sostanza, la Suprema Corte riconosce la necessità di una diligenza qualificata in capo al cassiere di banca cui viene presentato il titolo e tuttavia rileva come la stessa non possa spingersi fino al punto di esigere che lo stesso abbia la competenza di un grafologo.
Ciò posto, alla luce dei suddetti principi, appare del tutto corretta la decisione del giudice di primo grado, nella parte in cui ha accertato, con riferimento all’assegno n. (…) di Euro 1.577,17, che il tipo di alterazione non fosse rilevabile ictu oculi, in base alle conoscenze del bancario medio.
Invero, emerge chiaramente dall’esame della ctu come tale assegno presentasse una contraffazione che “non era riscontrabile attraverso un sia pure attento esame diretto, visivo o tattile, da parte di un impiegato in possesso di comuni cognizioni teoriche/tecniche né tanto meno, detto soggetto, avrebbe potuto in assenza di cognizioni grafologiche e tecnico-operative essere in grado di avvedersi della falsificazione utilizzando mezzi e strumenti presenti sui normali canali del mercato di consumo”.
Inoltre, come correttamente rilevato dal Tribunale, il consulente, in forza di un accertamento preciso e congruente, solo a seguito di prolungato e ripetuto esame con lente in ingrandimento e ausilio di microscopio digitale multispettrale con diverse luci, ha potuto individuare la contraffazione. L’ausiliario ha anche chiarito che neppure all’esame tattile avrebbero potuto essere rilevate anomalie tali da giustificare ulteriori indagini da parte dell’operatore allo sportello.
Dalla consulenza tecnica espletata, dunque, è emerso chiaramente che la contraffazione del titolo non avrebbe potuto essere percepita ictu oculi da parte del bancario medio, secondo la misura della diligenza allo stesso richiesta ex art. 1176 , co. 2, c.c. (“L’assegno in questione non presenta evidenti segni di falsificazione tali da essere riconosciuti secondo il comune patrimonio di conoscenze cui può verosimilmente attingere un soggetto, sia pure operante in ambito bancario, ma non in possesso di specifiche cognizioni tecniche ed operative in ambito grafologico e peritale”).
Deve altresì rilevarsi che anche le doglianze circa l’erroneità delle risultanze della C.T.U. e della relativa valutazione del Tribunale, che ad esse si è attenuto, non appaiono affatto convincenti e persuasive.
Da una parte, infatti, l’indagine tecnica operata dal C.T.U. si rivela accurata, precisa ed immune da rilievi di sorta; dall’altra, le tesi sostenute dall’appellante circa le asserite anomalie presenti sul titolo sono state compiutamente sconfessate dall’ausiliario, il quale, attraverso una disamina attenta e scrupolosa, ha analizzato tutte le osservazioni delle parti, chiarendo, in definitiva, che ” un conto sono le “anomalie”, altro è la falsificazione che solo gli esami strumentali hanno potuto rivelare e documentare.
A mero titolo di esempio: una sottoscrizione sia pure originale, e dunque pienamente valida, vergata con una penna per il nome e magari, per esaurimento di inchiostro, con altra penna per il cognome è una anomalia, ma non è una falsificazione.
Il quesito mi chiedeva di verificare la riscontrabilità di falsificazioni, non di semplici e spesso irrilevanti “anomalie”…”.
Per quanto sin qui esposto, il motivo di appello deve essere senz’altro rigettato.
Con il terzo motivo di impugnazione – rubricato: “La mancanza della prova liberatoria ex art. 1218 c.c. a carico di P.I. e la mancata produzione del titolo n. (…) di Euro 3.600,00” -, l’impugnante rileva che la banca negoziatrice, non avendo prodotto l’originale del detto titolo di credito, non avrebbe fornito la prova liberatoria su di essa gravante.
La censura è fondata.
Il Tribunale, sul punto rileva: “Per quanto attiene all’assegno bancario avente n. (…) di importo pari ad Euro 3.600,00 tratto sulla B.P.D.N., è emerso in atti che P.I. s.p.a., nello svolgimento delle normali operazioni di compensazione tra le banche, ha inviato alla stanza di compensazione l’assegno alla B.P.D.N. s.p.a. che ha emesso l’assegno e che ha l’obbligo di provvedere alla comunicazione del buon fine alla banca negoziatrice.
Tuttavia, contrariamente a quanto sostiene l’attore, la mancata esibizione dell’assegno, costituisce un fatto non imputabile alle P.I., le quali non ha la disponibilità del documento, inviato, invece, ad una banca che intrattiene un rapporto contrattuale (conto corrente) con parte attrice, che avrebbe potuto informarsi precedentemente il giudizio sull’esistenza o meno dell’assegno e la sua collocazione. “
La valutazione del giudice di primo grado non può essere condivisa.
Invero, risulta incontestato che: - in data 11.05.04 l’assegno nr. (…), emesso in data 11.05.04, dell’importo di Euro 3.600,00 è stato negoziato presso l’Ufficio postale di Napoli;
- sul titolo risultava indicato quale nominativo del beneficiario quello di V.R.;
- il pagamento è avvenuto attraverso il versamento su conto corrente postale n. (…) intestato V.R., conto radicato presso l’Ufficio postale di Napoli;
- il titolo è stato negoziati in check truncantion, ovvero quella procedura secondo cui la banca negoziatrice del titolo (quindi P.I.) presenta alla B. trattaria/emittente (B.P.D.N.) in pagamento (quindi in stanza di compensazione), senza inviarne la materialità ma trasmettendone i dati con flusso informativo (attraverso Rete Nazione interbancaria).
Il C.T.U., in relazione al detto titolo n. (…), non reperito in atti, ha specificato: “mi è stato riferito essere nella disponibilità della B.P., do atto di aver richiesto con pec del 4.5.2015 all’istituto di credito sopra menzionato che mi venisse consegnato il suddetto titolo in originale. Con nota di riscontro del 3.6.2015 il B.P. mi informava che il predetto titolo, unitamente ad altro, trovasi sotto sequestro presso il Provveditorato e Coordinamento Archivi di Modena”.
Ciò posto, qualora la contraffazione dell’assegno, come nel caso di specie, sia realizzata attraverso la sostituzione del nome del beneficiario, la prova liberatoria può essere fornita solo producendo in giudizio l’originale dell’assegno, al fine di consentire l’esame del titolo e la conseguente verifica tendente a stabilire se i segni della falsificazione fossero o meno rilevabili ictu oculi.
Non v’è dubbio, poi, che fosse onere della banca negoziatrice provare l’esatto adempimento e quindi produrre il titolo in originale, configurandosi nella specie un’ipotesi di responsabilità contrattuale e gravando, di conseguenza, sulla stessa l’onere di dimostrare di non avere potuto, pur impiegando il livello medio di diligenza qualificata, da essa esigibile, rilevare l’alterazione dell’assegno.
Per le ragioni sopra esposte, ritiene il Collegio che P.I. S.p.a., non avendo fornito adeguata prova liberatoria, sia responsabile del danno cagionato all’odierna appellante, la quale ha dovuto effettuare un secondo pagamento degli importi in favore dei propri assicurati.
P.I. S.p.a. ha tuttavia dedotto che gli assegni sono stati trasmessi per mezzo del servizio postale, con spedizione in plico ordinario e la circostanza non risulta contestata.
Deve, a questo punto, considerarsi che , come affermato dalle Sezioni Unite della suprema Corte, “La spedizione per posta ordinaria di un assegno, ancorché munito di clausola d’intrasferibilità, costituisce, in caso di sottrazione del titolo e riscossione da parte di un soggetto nonlegittimato, condotta idonea a giustificare l’affermazione del concorso di colpa del mittente, comportando, in relazione alle modalità di trasmissione e consegna previste dalla disciplina del servizio postale, l’esposizione volontaria del mittente ad un rischio superiore a quello consentito dal rispetto delle regole di comune prudenza e del dovere di agire per preservare gl’interessi degli altri soggetti coinvolti nella vicenda, e configurandosi dunque come un antecedente necessario dell’evento dannoso, concorrente con il comportamento colposo eventualmente tenuto dalla banca nell’identificazione del presentatore” (cfr. Cass., sez. un., n. 9769/20 , nonché Cass. civ. n.140/2023 ).
In particolare, nella richiamata sentenza, le Sezioni Unite hanno chiarito definitivamente che la “colpa” del danneggiato ex art. 1227 c.c., comma 1, non è un criterio di imputazione della responsabilità, ma un criterio di selezione dei vari possibili comportamenti eziologicamente idonei alla produzione dell’evento dannoso (in quanto tali, se ritualmente allegati, ricadenti nell’ambito della cognizione del rapporto sottoposto al Giudice e da questi verificabili ex officio), rispondente al principio “che esclude di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso”.
La Suprema Corte ha anche precisato (cfr. ord. (…)) che, “dovendosi ravvisare una medesima rilevanza causale tanto nella condotta omissiva del danneggiato, tenuto da specifica norma di legge ad impedire un evento, quanto nella inerzia dello stesso di fronte ad “una specifica situazione che esiga una determinata attività a tutela di un diritto altrui” (venendo in questo caso a fondarsi l’obbligo di attivazione, secondo i comuni principi di diligenza, nel generale “principio solidaristico” dell’ art. 2 Cost., che trova specificazione nel dovere di comportarsi secondo correttezza previsto dall’art. 1175 c.c.), ne consegue che la condotta del danneggiato il quale, come nel caso di specie, disattende le indicazioni desumibili dalla disciplina normativa – sia pure non integranti un obbligo imposto dalla legge specificamente a tutela dei terzi, in quanto rivolte al rapporto tra utente e P. – che regola le modalità di impiego dei diversi servizi postali, utilizzandoli in modo diverso dalle rispettive funzionalità e scopi (desunte dal D.M. 26 febbraio 2004 e dal D.P.R. 29 maggio 1982, n. 655 , secondo cui, rispetto alla corrispondenza ordinaria, la posta raccomandata consente al mittente di ottenere una certificazione dell’avvenuta spedizione e ricezione, mentre la posta assicurata consente al mittente di garantirsi dalla perdita del contenuto della spedizione, e di controllare e tracciare tutte le fasi della trasmissione), comporta la volontaria esposizione ad un maggiore rischio di incertezza in ordine al risultato finale di garantire al destinatario il possesso materiale del titolo di credito, incertezza determinata dalla voluta trascuratezza dei mezzi, pure disponibili, volti proprio a garantire tale risultato.
La scelta compiuta dal danneggiato, in tal modo, non viene in rilievo come oggetto di valutazione di riprovevolezza secondo gli ordinari criteri di accertamento della colpa per violazione di obblighi di condotta nelle relazioni intrattenute con i terzi, ma viene, invece, in considerazione in relazione al risultato di tale scelta, e cioè al dato obiettivo del “mezzo” prescelto per la consegna dell’assegno, quale “fatto materiale” che viene ad inserirsi nel normale processo evolutivo della serie causale, costituendo uno degli antecedenti causativi dell’evento dannoso, ossia dell’illecito perpetrato con l’utilizzo del titolo, tramite la creazione dell’apparente legittimazione nel possessore ed il pagamento eseguito dalla banca al titolare apparente”.
Rappresentando, dunque il possesso del documento una condizione essenziale per l’esercizio del diritto in esso incorporato, allo stesso modo della qualità di prenditore di colui che presenta il titolo all’incasso, qualora la sottrazione sia stata cagionata o comunque agevolata dall’adozione di modalità di trasmissione inidonee a garantire, per quanto possibile, che l’assegno pervenga al destinatario, non può dubitarsi che la scelta delle predette modalità costituisca, al pari dell’errore nell’identificazione del presentatore, un antecedente necessario dell’evento dannoso, che rispetto ad esso non si presenta come una conseguenza affatto inverosimile o imprevedibile (cfr. Sezioni Unite n. 9769/2020 cit).
Alla luce dei principi giurisprudenziali sin qui richiamati, ne consegue che, nel caso in esame, non essendo stato contestato l’utilizzo del servizio di posta ordinaria per la spedizione dell’assegno (circostanza invero espressamente dedotta dalla parte appellata, anche nel giudizio di primo grado) deve ritenersi che il mittente si sia assunto il rischio della sottrazione del titolo e della sua presentazione all’incasso da parte di un soggetto non legittimato. Tale rischio, avuto anche riguardo al valore economico dell’oggetto spedito ed alla possibilità di avvalersi di forme di corrispondenza che offrono adeguate garanzie (oltre che di strumenti di pagamento più sicuri), si rivela del tutto ingiustificato, oltre ad accrescere la probabilità di pagamenti a soggetti non legittimati, con conseguente aggravamento della posizione della banca negoziatrice, che rimane maggiormente esposta alla possibilità di andare incontro a responsabilità.
L’utilizzazione della posta ordinaria si pone, insomma, in contrasto con le regole di comune prudenza, le quali suggerirebbero di avvalersi di modalità di trasmissione più idonee ad assicurare il controllo sul buon esito della spedizione, nonché con il dovere di agire in modo da preservare gli interessi di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, ove ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico, e ciò in ossequio al principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost., che a livello di legislazione ordinaria trova espressione proprio nella regola di cui all’art. 1227 c.c., operante sia in materia extracontrattuale, in virtù nell’espresso richiamo di tale disposizione da parte dell’art. 2056 c.c., sia in materia contrattuale, come riflesso dell’obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede, previsto dall’art. 1175 c.c. in riferimento sia alla formazione che all’interpretazione e all’esecuzione del contratto (cfr. Sezioni Unite n. 9769/2020 cit.; in senso conforme, Cass. 16 novembre 2020, n. 25873 ).
In applicazione di tali principi, deve ritenersi, dunque, sussistente quale causa dell’evento dannoso in oggetto anche la condotta colposa della compagnia di assicurazione che, in qualità di soggetto professionalmente qualificato, avrebbe dovuto effettuare pagamenti con modalità più sicure, quali la posta assicurata o raccomandata, atte ad evitare il rischio di possibili sottrazioni.
Ritiene, inoltre, il Collego che la responsabilità concorrente della compagnia assicuratrice abbia inciso in pari misura nella produzione dell’evento lesivo, anche tenuto conto del non trascurabile importo dell’assegno (essendo richiesto un grado di diligenza tanto più elevato quanto più è consistente l’importo del titolo).
Pertanto, in parziale riforma della sentenza appellata, la Corte ritiene di attribuire a ciascuna delle due parti il 50% della responsabilità del fatto lesivo in oggetto e di condannare, dunque, P.I. al pagamento della somma di Euro 1.800,00, somma da rivalutare all’attualità, in base all’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, dal 27.6.2006 (data di ricezione della raccomandata a.r. con messa in mora) e sino alla data di pubblicazione della presente sentenza.
Sulla somma dovuta competono altresì gli interessi legali, da calcolarsi, fino alla data di pubblicazione della presente sentenza – segnante la trasformazione dell’obbligazione risarcitoria in debito di valuta (cfr. Cass. n. 3996/01 e Cass. n. 1256/95 ) – non sull’importo liquidato all’attualità ma sul controvalore originario, annualmente rivalutato (cfr. Cass. S.U. 17.2.1995 n.1712 ) e sulla somma finale rivalutata, da tale ultima data sino al soddisfo (cfr. Cass. n. 13508/91 ).
Il quarto motivo di impugnazione, con il quale l’appellante lamenta l’incongruità della statuizione in punto spese legali rimane assorbito, atteso il parziale accoglimento dell’impugnazione, che comporta l’automatica caducazione del capo concernente le spese processuali, con conseguente necessità di una nuova regolamentazione delle spese del doppio grado di giudizio, alla stregua dell’esito finale della lite (cfr., sul punto, Cass. ord. n. 6259/14 , nonché sent. n. 14633/12 e n. 18837/10).
L’accoglimento solo parziale dell’appello proposto, il riconoscimento del concorso di colpa del danneggiato ed il consistente ridimensionamento dell’originaria pretesa vantata dall’appellante giustificano la compensazione delle spese di entrambi i gradi del giudizio nella misura di due terzi.
La restante parte delle spese, invece, è posta a carico della parte appellata P.I. ed è liquidata come da dispositivo, con riferimento ai parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014 , aggiornato al D.M. n. 147 del 13 agosto 2022 , in base a valori compresi tra i minimi ed i medi tariffari e tenuto conto del valore della controversia, individuato in base al criterio del disputatum, integrato da quello del decisum (cfr. fra le tante, Cass., ordinanze n. 10984/2021 , n. 22742/19 e n. 27274/17 ), della natura dell’affare, delle questioni trattate e dell’opera prestata e con esclusione, per il giudizio di appello, della fase istruttoria non espletata.
Le spese relative alla CTU svolta in primo grado sono poste definitivamente a carico di entrambe le parti.
P.Q.M.
La Corte d’Appello di Napoli – Sezione Civile VII, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da U.A. S.p.A. avverso la sentenza del Tribunale di Napoli n. 9381/2016, pubblicata il 28 luglio 2016, ogni ulteriore domanda ed eccezione reiette, così provvede:
1) accoglie l’appello per quanto di ragione e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, condanna P.I. S.p.A. al pagamento in favore U.A. S.p.A. della somma di Euro 1.800,00 oltre interessi e rivalutazione come da parte motiva.
2) compensa nella misura di due terzi le spese processuali di primo e secondo grado e condanna l’appellante alla rifusione in favore di U.A. S.p.A. della restante parte di un terzo che, in tale ridotta misura, liquida: - per il giudizio di primo grado in Euro 833,00 per compensi ed Euro 93,00 per spese;
- per il giudizio di appello in Euro 633,00 per compensi ed Euro 58,00 per spese;
oltre IVA e CPA come per legge e spese forfettarie al 15%.