Editoriale

Cari lettori,

“Grafologia Magazine” compie in questi giorni il suo primo anno di vita in “rete”, una forma di comunicazione moderna, semplice e veloce ed al tempo stesso efficace, in grado di raggiungere tutti.

Il risultato, fino ad ora, è molto soddisfacente, tante persone ci scrivono, a volte ponendo quesiti piuttosto singolari, ma rispondiamo sempre con grande piacere ed un “pizzico “di orgoglio per aver   saputo risvegliare, spesso, interesse e curiosità, anche nelle menti più scettiche riguardo a questa materia.

A volte prendiamo spunto dai quesiti che ci vengono posti, per elaborare gli articoli, è un modo indiretto per rispondere a più persone, magari ci si riconosce in “quel” problema e così trovare una risposta, oppure la strada giusta per poterlo risolvere.

Un ringraziamento speciale da parte mia ai vari Professionisti che in questo anno si sono susseguiti, fornendo un contributo essenziale a questo progetto editoriale nel quale ho creduto da subito.

Ciascuno di loro ha messo a disposizione dei lettori le proprie competenze, maturate nel corso delle personali esperienze professionali e soprattutto umane.

Ci sono svariate riviste specializzate per noi grafologi, interessanti ma piuttosto tecniche, si usa una terminologia specifica per noi che lavoriamo in questo settore.

La mia ambizione era proprio quella, invece, di affrontare e divulgare una materia piuttosto complessa, quale la grafologia, con una modalità differente, accessibile, di facile comprensione anche per i non “addetti ai lavori”.

Spero di esservi riuscita, insieme a tutti i miei compagni di penna come mi fa piacere definire, in modo affettuoso chi si è speso a favore di Grafologia Magazine.

Patrizia Belloni

Freud e le tre istanze

Secondo Freud la rappresentazione della struttura della psiche è composta da: Io, Es, Super-Io.[1]

Quando nasciamo, siamo tutti Es, ovvero allo stato brado, assecondiamo le pulsioni, inseguiamo il nostro benessere fisico, il primo stadio.

Man mano che si cresce si fa strada il Super-Io, ovvero la sede delle proibizioni, si prende coscienza, riusciamo a distinguere il bene dal male.

Poi c’è l’Io, ovvero il mediatore tra queste istanze in conflitto.

Possiamo ritrovare i concetti di Feud anche nella famosa favola di Collodi, la celeberrima Pinocchio, quante volte l’abbiamo ascoltata e raccontata ai nostri bambini…

Ecco, Lucignolo rappresenta l’Es, la trasgressione, non riesce a controllare le proprie pulsioni, inseguendo il proprio piacere trasgredisce tutte le regole.

Pinocchio, l’Io della situazione, che non essendo abbastanza forte si faceva trascinare nelle avventure più disparate e a volte pericolose! Anche se tormentato dai sensi di colpa nei confronti del povero Geppetto, deluso da questo “bambino”.

A quel punto arrivava sempre il grillo parlante, la coscienza, il Super-Io, punitivo e vessatorio che puntualmente scaturiva crisi esistenziali a Pinocchio, ovvero ad un Io debole, poco strutturato per poter gestire una situazione così difficile.

Il piacere, la trasgressione da un lato ed il dovere, studiare, fare i compiti, rispettare l’anziano “genitore”, che dilemma!

A questo punto ci si chiede… cosa c’entra Pinocchio con la grafologia?

Nella scrittura si individuano i segni corrispondenti a ciascuna di queste tre istanze.

Noi grafologi, quando esaminiamo uno scritto, dal momento che viene richiesto un profilo psicologico, ci soffermiamo sugli elementi che soprattutto ci parlano dell’Io.

Che sia solido o meno, da lì si parte.

Ciò si evince dalla zona “media” della scrittura, riusciamo a capire se lo scrivente riesce a resistere ai richiami della trasgressione senza lasciarsi sopraffare da un Super-Io castrante.

Zona media, ovvero il piano orizzontale, la superficie della terra, ciò su cui ciascuno di noi poggia i piedi, la concretezza in cui ci muoviamo, la direzione verso una meta da raggiungere, l’incontro con l’altro e soprattutto l’adattamento.

E’ proprio su quest’asse, l’orizzontale, che raffigura l’immagine temporale che intercorre tra ciò che è stato e ciò che sarà.

Se la zona media è salda e ben strutturata, sicuramente non si farà “trascinare” da un movimento captatore, che cercherà di renderla debole, in balìa degli eventi.

[1]Freud, L’io e l’Es, 1923

Patrizia Belloni

Indagini grafologiche un’arma in più per l’investigatore

Un buon investigatore non si arrende neanche davanti ai casi più difficili. La ricerca della soluzione non si abbandona mai e viene cercata, attesa, agognata anche per anni, sino a quando finalmente arriva, seppure a notevole distanza temporale dall’evento delittuoso. Una fortunata serie televisiva americana li ha fatti conoscere al grande pubblico con il termine inglese “cold case” tradotto letteralmente casi freddi, per intenderci quei casi rimasti senza risposta in cui le indagini non sono servite a dare un nome, cognome e volto all’autore del crimine. I motivi per cui un indagine è risultata improduttiva possono essere molteplici, tra questi vi sono lo shock emotivo del momento e la paura che si impadroniscono dei testimoni e che il passare del tempo riesce ad affievolire. Il caso che segue ne è un tipico esempio e la sua scelta risiede nel ruolo di tutto rilievo avuto dall’utilizzo delle conoscenze grafico-grafologiche.

Fu proprio in conseguenza di una lettera anonima scritta a mano indirizzata ai carabinieri di quel piccolo paese della provincia calabrese a indurre il comandante giunto da poco più di un anno a riaprire le indagini sull’omicidio di due agricoltori e il tentato omicidio di un ragazzo quindicenne che viaggiava con loro a bordo di un veicolo Ape 50 cassonato a tre ruote, avvenuto quattro anni prima nelle campagne della parte alta del poggio collinare. Si era trattato di un vero agguato finalizzato all’eliminazione di un intero nucleo familiare. Le vittime infatti erano state il capo famiglia Domenico di 42 anni e il figlio Francesco di 19 anni mentre l’altro figlio Giuseppe di 15 anni era miracolosamente sopravvissuto.

Gli investigatori dell’epoca in sede di sopralluogo si trovarono di fronte ad uno scena di inaudita brutalità, due corpi senza vita attinti da ripetuti colpi d’arma da fuoco calibro 357 magnum con materia cerebrale sparsa sul terreno ed un terzo corpo agonizzante con porzioni di testa e addome gravemente lesionati.

Quella famiglia di modeste condizioni economiche che viveva del lavoro della terra era stata punita. Ma a tale punto di partenza rimasero gli investigatori non potendo avvalersi di nessun altro elemento utile per lo sviluppo delle indagini ne di testimonianze. L’unico sopravvissuto rimasto a lungo in stato di incoscienza tra la vita e la morte aveva riportato menomazioni gravissime, una parte della testa era scoppiata insieme ad un occhio e una parte altrettanto importante dell’addome con l’intestino era stato irrimediabilmente asportata. Le dichiarazioni del sopravvissuto, rilasciate dopo diversi giorni dall’accaduto, risultarono lacunose, per alcuni aspetti omissive e comunque insufficienti ad indirizzare le indagini in una precisa direzione o su di un sospettato. La paura e lo shock emotivo avevano rappresentato per quattro anni un ostacolo insuperabile per qualsiasi persona in grado di riferire fatti e circostanze. Ma quella mattina una mano seppure protetta dall’anonimato aveva avuto il coraggio di fare nome e cognome del pluriomicida. “Vincenzo C…… ha ucciso Domenico e Francesco M……. perché non avevano pagato il pizzo”.

Il comandante dei carabinieri si fece portare subito il fascicolo delle indagini che si trovava oramai in archivio da qualche tempo senza grosse speranze di soluzione. Ma quale attendibilità poteva avere quella lettera dopo quattro anni dagli omicidi? E chi aveva scritto quella missiva una volta identificato sarebbe stato in grado di riferire notizie utili per smascherare l’assassino? In realtà quella lettera non arrivava per caso, perché in quei giorni il comando dei carabinieri aveva concluso un’importante indagine su vari episodi delittuosi in cui contadini, operai e persino portalettere erano state vittime di richieste estorsive di danaro precedute da minacce di morte o seguite in caso di tentennamenti nel pagare il pizzo da violente azioni a mano armata. Un’intera frazione di abitanti era sotto il barbaro controllo di pochi violenti che con metodi mafiosi pretendeva e otteneva di vivere sulle spalle degli altri residenti della zona.

Il duplice omicidio era divenuto un vanto per gli estorsori che ne facevano monito nel sollecitare il pagamento del pizzo.

Gli investigatori avevano scoperto una realtà superiore ad ogni immaginazione, ogni famiglia della zona era chiamata a versare, solo per continuare ad avere il diritto di vivere in quella povera area rurale, somme di danaro variabili tra i 3.000 e i 50.000 euro.

La fiammella della speranza nella legge dello Stato si era nuovamente accesa negli abitanti di quella piccola frazione abbandonata nelle mani dei violenti e quel manoscritto ne era una testimonianza, bisognava agire rapidamente per evitare che si spengesse definitivamente.

Il comandante dei carabinieri fatta una mappa dei potenziali autori dello scritto li convocò uno ad uno in ufficio facendogli scrivere in corsivo una dichiarazione relativa ai propri dati anagrafici e di famiglia. Ben presto fu chiaro che l’autore della missiva era stata Maria, la figlia di Domenico scampata al massacro perché quel giorno non era andata assieme al papà ed ai fratelli a lavorare la terra.

Maria messa davanti all’evidente coincidenza delle due scritture confermò le sue accuse rendendo noto per la prima volta che l’agguato mortale ai suoi familiari era stato perpetrato da Vincenzo C., in conseguenza di una richiesta estorsiva di 3.000 euro non corrisposta. Le dichiarazioni di Maria non avrebbero però avuto effetti in sede giudiziaria se non fossero sopravvenute le dichiarazioni di un testimone oculare dell’accaduto che fino ad allora aveva taciuto paralizzato dalla paura di nuove azioni omicidiarie. Il giovane Giuseppe gravemente e brutalmente offeso nel corpo e nell’anima, sopravvissuto per caso o per volere divino, liberato dall’angoscia di attirare con la sua testimonianza le ritorsioni degli estorsori della zona, rese finalmente una dichiarazione piena e determinante per inchiodare alle sue responsabilità penali Vincenzo C., condannato poi all’ergastolo, che quel giorno sicuro dell’esito mortale dell’agguato e dello stato di totale assoggettamento dei residenti della zona aveva agito a volto scoperto.

Roberto Colasanti