L’importanza dei disegni infantili

Molti genitori, quando si trovano dinanzi ai disegni dei loro bambini, non gli danno un’adeguata importanza.

Pensano ad una esternazione banale, di poco conto, ricordo che una volta una giovane mamma disse che il “brutto” disegno di sua figlia era dovuto ad un sogno fatto dalla bambina sere prima. Oppure, addirittura, alla cattiva digestione.

Per non citare le mamme che hanno quasi paura di chiedere ai propri figli con quel tale disegno cosa volessero comunicare, nulla di più sbagliato.

In verità, il disegno infantile è un processo di elaborazione piuttosto articolato, entrano in gioco conoscenze percettive, di cognizione, nonché motorie.

Tali competenze, ovviamente non sono innate, ma si sviluppano pian piano, nel corso dei primi cinque-sei anni di vita.

Le abilità appena citate si intersecano con una buona dose di immaginazione, che si avvale però, di ciò che il bambino ha visto o sentito.

E’ la capacità di creare un ponte di collegamento con il proprio mondo, quello nascosto, interiore ed emotivo con il foglio di carta, quindi “trasportare” ciò che prova, che alberga nel proprio cuore al di fuori.

Per questi e molti altri motivi, il disegno infantile può assolvere svariate funzioni: aiuta nella comunicazione, facilita la socializzazione, in alcuni casi è terapeutico.

L’artista in “erba”, attraverso il disegno riesce a tirare fuori, quindi trasferire , le proprie ansie, dare una forma concreta alle sue paure. In questo caso il disegno non è soltanto espressione creativa ma anche un mezzo che ci aiuta a capire i loro stati d’animo.

I disegni infantili hanno la possibilità di essere interpretati dagli adulti, attraverso una scrupolosa osservazione, unita ad una semplice domanda, senza fare inquisitorio, su cosa intendesse comunicare attraverso il suo disegno, quindi dialogo e capacità di percezione da parte del genitore, soltanto in questo modo possiamo arrivare a capire gli aspetti significativi della sua crescita.

Quanto detto sino ad ora dimostra quanto sia importante l’ascolto dei bambini, anche alla luce di recenti fatti di cronaca dove sono proprio loro le principali vittime.

Infatti, in questi giorni, televisione e giornali stanno parlando molto del caso di Fortuna, la bambina di Caivano vittima di pedofilia nel Giugno 2014.

Conosciamo tutti il triste epilogo, ma vorrei soffermarmi su un’altro aspetto di questa brutale vicenda, “positivo”, se così si può dire… rispetto a tutto il resto.

Le amichette del cuore di questa bimba, hanno fornito un contributo fondamentale allo svolgimento delle indagini, con i loro racconti, e molti disegni.

Molto eloquente, uno in particolare, in cui una delle amichette della vittima, attenzionata dagli psicologi, raffigura “il mostro”, l’orco cattivo con artigli affilati e la pelle a strisce, tipo quella di un serpente.

Con molto coraggio, è riuscita a soli undici anni, ad abbattere il muro dell’omertà, a vestire i panni di persona adulta e responsabile, un compito molto difficile per quell’età.

Patrizia Belloni

Scritture di ieri e di oggi a confronto

Cari lettori,

In questo numero ho il piacere di pubblicare, tra altri interessanti articoli, anche una testimonianza sincera, uno spaccato di vita, della prof.ssa Franca Finelli.

Un’amica che ha voluto mettere a disposizione di “grafologia magazine” una sua esperienza vissuta in età adolescenziale. Sicuramente utile a molti genitori, perchè, anche se un po datato, ritengo che questo tipo di problema sia ancora molto attuale.

Farò una breve premessa per un’agevole comprensione al tema che stiamo trattando. Vi sono due tipologie di scrittura che caratterizzano l’età adolescenziale, una è lo “script”, o semi-stampatello, scrittura chiara e leggibile, tipica di chi vuole farsi capire, facilitando la comunicazione.

La “forma” che prevale sul movimento, il quale, nella scrittura corrisponde alla forza pulsionale, conferisce slancio, infonde libertà e scaturisce le emozioni.

Quindi , dove prevale la forma, c’è la ricerca di sé, (narcisismo) sicuramente una scrittura convenzionale.

Chi scrive in questo modo, si omologa al gruppo, che, da un lato, infonde una certa sicurezza, ma non lascia spazio alla creatività individuale.

Viene a mancare uno stile proprio, una personalizzazione, in parole povere la nostra unicità è gravemente penalizzata.

La forma, non più gestualità libera, in movimento, ma solida costruzione. L’altra scrittura, la “misteriosa”, l’ indecifrabile, indica una certa difficoltà, se non incapacità di comunicare.

Il desiderio di non farsi capire, soggiace in chi scrive con questa modalità, creare un’alone di mistero intorno a sé, specialmente se la vita sociale, affettiva e professionale dello scrivente è limpida, chiara, probabilmente troppo.

Scatta il desiderio di avere uno spazio proprio, delimitare una zona, un limite invalicabile dove gli altri non possono accedere, a meno che, non siamo proprio noi, consciamente ad abbattere quel muro.

I motivi possono essere di varia natura, professionali, burocratici, di studio come è accaduto a quella giovane studentessa che oggi è la prof.ssa Finelli, docente di itliano al liceo Scientifico, ma rendersi visibili, accessibili, comporta un dispendio psico-fisico non indifferente, se quello non è il nostro modo di scrivere, spontaneo ed innato.

Seguiteci in questo percorso, dove esperienze di vita, vissute qualche anno fa hanno ancora oggi una notevole valenza.

Patrizia Belloni

I segni dell’anima attraverso la scrittura

Scrivere “bene”, avere una grafia chiara, leggibile, è molto importante in quanto, facilita al massimo la comunicazione. Franca Finelli

Ma andiamo per ordine, la parola “calligrafia” deriva dall’unione di due parole greche: kalos e graphia che vogliono dire appunto, bella grafia e non come si dice comunemente bella calligrafia in quanto significherebbe una ripetizione del termine kalos.

In questo frangente, io per prima non sono un buon esempio, già ai miei tempi, non esisteva più l’esercizio di bella scrittura che serviva ad “educare” all’uopo.

L’annullamento di tale esercizio, sentito come una coercizione, lasciò libero spazio alla capacità personale o comunque ad una fase di esternazione del proprio carattere.

Personalmente, al mio attivo ho, tra le tante, due esperienze molto significative che vale la pena citare.

La prima riguarda l’invio di una certa somma di danaro il cui destinatario non riusciva a comprenderne l’importo, la seconda riguarda la prova scritta di italiano al mio esame di maturità classica: due ore per scrivere il tema in “brutta” e ben quattro per ricopiarlo in modo leggibile.

Ciò dimostra quanto sia difficile, scrivere in un modo che non ci appartiene, di quanto impegno cerebrale e fisico venga investito, rendere il mio tema di facile accesso all’insegnante che avrebbe dovuto valutarlo è stata una vera impresa.

Il resto delle esperienze le ho raccolte in campo lavorativo, sono un’insegnante di italiano al liceo scientifico “Ignazio Vian” di Bracciano, a volte passo ore intere a decifrare quanto scrivono i miei alunni.

Ma cosa c’è dietro una “bella” o “brutta” scrittura? A mio avviso quella differenza rappresenta unicamente la diversità dei caratteri di ciascuno di noi, il modo di approcciarsi ai problemi e di risolverli, ai differenti stati d’animo.

Ricordo perfettamente l’ansia che provavo quando dovevo fare un compito, frutto non solo di studio ma anche di pensiero: un pensiero coerente che non poteva eticamente tradire quei valori in cui credevo.

L’ansia di riuscire bene per non deludere le mie aspettative ma anche quelle dei miei genitori che in me avevano investito tanto.

Il sacrificio anche fisico, svegliarsi molto presto al mattino per raggiungere il liceo “Lucrezio Caro”, essendo una pendolare, non tornare a casa prima delle 15,00 o anche più tardi, e poi svolgere i compiti per il giorno dopo.

Mio figlio mi direbbe :”sei in pieno libro cuore”… può darsi, che ora la cosa possa sembrare così, ma io lavoravo con orgoglio, andare al liceo, per me significava credere nel futuro, nella mia capacità di dare un contributo importante alla società, avere la certezza che quel “sacrificio” non sarebbe stato vano, che avrei raccolto dei frutti.

Evidentemente, tutto ciò lo trasmettevo attraverso la mia grafia, l’ansia che mobilita, la stanchezza fisica e mentale, il senso del dovere, non deludere le aspettative…forse, incosciamente, era un moto di ribellione, staccarmi, attraverso la grafia indecifrabile, dagli stereotipi, rivendicare un senso di trasgressione…di libertà.

Voglio concludere dicendo che secondo me, la grafia è lo specchio dell’anima.

Prof.ssa Franca Finelli

La tensione nel gesto grafico

La scrittura, per poter lasciare la traccia ed avanzare sul foglio, richiede, necessariamente l’impiego di una certa tensione, frutto dello sforzo e concentrazione che necessitano per scrivere, che possono variare a seconda delle condizioni e motivi per cui si scrive.

Che siano appunti, lettere personali ecc… ma soprattutto a seconda della personalità dello scrivente.

Dobbiamo al tedesco R. Pophal, neurologo e grafologo, le ricerche nell’ambito della fisiologia del movimento, riguardo l’interazione delle tensioni fisiche e psichiche nello svolgersi del gesto grafico al fine di scoprire il “senso psicologico” dello stesso, attraverso il tracciato nella pressione, cioè appoggio sul foglio, e nella tensione del gesto.

Pressione e contrazione muscolare, entrambe espressione di sforzo e volontà, l’unica differenza è l’orientamento.

Per quanto riguarda la pressione “l’ostacolo” è il foglio bianco, lo spazio grafico.

In questo modo, acquista il significato di collegamento con il mondo esterno.

Nella contrazione ci opponiamo ad un ostacolo interiore, il muscolo antagonista frena l’agonista, quindi contrazione ovvero resistenza, che blocca lo sforzo verso qualsiasi azione positiva-costruttiva.

Pophal, distingue inoltre due gruppi di movimenti: espressivi e rappresentativi, vale a dire che la semplice espressione dello scrivere è inconscia, quella rappresentativa, è conscia.

Il gesto grafico quando è spontaneo richiede energia ma non sforzo come il camminare (sono entrambi gesti psicomotori). Non stiamo a pensare a come scrivere o camminare, perchè avvengono in modo naturale. Diversamente, gesti che in qualche modo ci rappresentano (azioni consce) necessitano di uno sforzo maggiore, mentale e fisico.

Avete mai provato a scrivere non più di dieci righe simulando una scrittura? Vi assicuro che oltre al mal di testa si avvertirà anche un lieve dolore al braccio.

Patrizia Belloni

Micrografia parkinsoniana

La micrografia è un disturbo comune e precoce nella malattia di Parkinson,
riconducibile alla acinesia, bradicinesia, ipertensione, perdita di automazione tipica dell’affezione. Tale disturbo di scrittura può essere trattato con sedute di riabilitazione.

La micrografia è un disturbo della scrittura frequente nella malattia di Parkinson ed é caratterizzata da dimensioni che si contraggono nel suo progredire verso la fine di una parola o di una riga. La peculiarità di tale scrittura, definita dagli Autori francesi «pattes de mouche» (zampe di mosca) denota inoltre rallentamento, ma consente solitamente la lettura. In altri casi la scrittura è perturbata al punto da divenire indecifrabile. Tale disturbo grafico è molto diffuso (si cita il 75% dei malati di Parkinson) e spesso si instaura precocemente, nella fase iniziale della malattia, contribuendo alla diagnosi, di cui diviene un carattere premonitore. Le implicazioni pratiche del disturbo variano da caso a caso, in funzione del soggetto che ne è portatore e della sua attività, ma il problema ha comunque un impatto negativo sulla vita sociale e professionale, generando spesso conflittualità nell’autenticazione/disconoscimento/capacità in ambito forense.
La scrittura è notoriamente un’attività complessa finalizzata a produrre rapidamente su un supporto caratteri piccoli e piuttosto simili, con movimenti veloci e precisi. Oltre ai tratti dei caratteri, la scrittura richiede abilità di movimento nel produrre “salti” da sinistra a destra, permettendo inoltre rientri in senso opposto, garantendo accentature e ritocchi. Sebbene il supporto di scrittura sia piano, l’attività manuale richiesta deve generare dunque movimenti tridimensionali che implicano impegno articolare non solo della mano, ma anche del polso, del gomito e della spalla. La scrittura risente inoltre dell’atteggiamento posturale e dei punti d’appoggio preferenziali del soggetto.

L’apprendimento della scrittura è piuttosto lungo e complesso, iniziando nei bambini di circa 3 anni con i primi tratti verosimilmente simbolici e non codificati in senso alfabetico, proseguendo poi a circa 6 anni con la produzione di caratteri appresi su cui esercita un controllo visivo. Col tempo l’attività verrà progressivamente automatizzata e l’ispezione visiva non sarà più necessaria.
Nel Parkinson, fin dall’inizio della malattia, la corretta calligrafia acquisita nella scuola primaria durante l’infanzia, inizia frequentemente a deteriorarsi con restringimento della dimensione dei caratteri, difficoltà di avvio della scrittura e quindi nel tracciare le prime lettere di un testo. Gruppi di lettere sono spesso intervallati da spazi, incertezze, arresti, alcune lettere con occhielli o ripiegamenti (
boucles) quali la “e ” e la “l pongono particolari problemi ai pazienti con malattia di Parkinson, così come la “’m” e la “’n”, cui tendono ad aggiungere una o più gambe.
La micrografia è una conseguenza dei sintomi motori della malattia di Parkinson: l’acinesia che rende difficile l’avvio del movimento, con sovrapposizione di ansia nell’iniziare a scrivere, la bradicinesia che riduce l’ampiezza dei caratteri, l’ipertono muscolare che ostacola il flusso di scrittura e quindi la sua qualità, la perdita di movimenti automatici che ne produce il deterioramento.
La rieducazione alla scrittura, demandata alle professionalità abilitate, si articola in genere in un percorso riabilitativo fondato su attività intensiva in 15 sessioni, con 3 sedute a settimana. Ogni sessione dura 45 minuti ed è completata da esercizi da svolgere ogni giorno a casa. All’inizio di ogni sessione, il terapeuta sceglie con il paziente un tema personale motivante: prepararsi e firmare un assegno, scrivere una lettera ai familiari, preparare una lista della spesa, ecc. L’intento degli esercizi iniziali è quello di produrre un’esaltazione dell’ampiezza e della gamma di movimento, con allenamento paziente nel riprodurre nello spazio enormi tracciati raffiguranti “8” o “ 0”. L’esercizio sarà seguito dal tracciato di altre linee curve su grandi superfici. Poi il paziente sarà invitato a trovare la corretta altezza dei caratteri scrivendo parole brevi, poi sempre più lunghe su fogli quadrettati. Lo scopo di questo metodo è rendere il movimento volontario consapevole e meno automatico, memorizzando comandi verbali e monitorando le varie escursioni per ottenere il risultato visivo atteso.

Antonella Pastorini